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Bruno Pizzi

Biografia dell'Artista

Intervista di Fabio Gatti a Bruno Pizzi apparsa sul Corriere della Sera del 15.08.2014:

La Divina Commedia a memoria recitata dal falegname di Bedulita.

«Mi ha appassionato Benigni, ora faccio una serata a settimana»

È l’unica persona che teme il Paradiso più dell’Inferno. Il Purgatorio, invece, dei tre è il luogo che frequenta meno, anche se si ripromette di esplorarlo a fondo al più presto. Il paradosso è che l’Inferno, almeno quello raccontato da un genio fiorentino vissuto settecento anni fa (ma ancora l’anno scorso il poeta più ricercato al mondo su Google), «parla davvero all’uomo di oggi, a ognuno di noi, perciò è il più conosciuto», mentre il Paradiso è «filosofia pura, anzi, di più: vera e propria teologia». E per questo, forse, spaventa un po’, soprattutto chi deve cercare di narrare e spiegare Dante a chi di Dante, magari, non sa nulla.

Bruno Pizzi, 54 anni e due figli, di Bedulita, non è un attore, né un insegnante, né un critico letterario o un teologo. Di professione fa il falegname, in una terra dove i falegnami non mancano, la Valle Imagna; più raro, però, è incontrare un falegname che conosce la Divina Commedia a memoria, e ne diffonde i versi attraverso serate di successo che, per chi frequenta la zona, sono diventate un appuntamento irrinunciabile dell’estate. Per Bruno, che pure percorre i gironi infernali più volte durante la giornata, il nemico più temibile non è il diavolo, ma la televisione: «Ho iniziato a portare in giro Dante per antipatia della televisione. Si può dire?». Anche in lui, come in tanti italiani, chi ha risvegliato la passione, o anche solo la curiosità per il poeta fiorentino, è stato un altro fiorentino, non poeta ma comico: «Se cerchi la parola Dante in una qualunque enciclopedia digitale straniera — nota il falegname dantista —, tutte diranno che a riscoprire la Divina Commedia in Italia è stato Roberto Benigni. Sarà un po’ triste, ma è la verità». Pizzi non è però di quelli che puntano subito il dito contro la scuola, come madre di tutte le ignoranze nazionali: «Capita che dopo le mie esibizioni qualcuno, dalla platea, si avvicini e mi dica: magari mio figlio avesse un insegnante così… A me fa piacere il complimento, ma in fondo mi rattristo: non ci credo, non è vero che tutti gli insegnanti sono incapaci, che è solo colpa loro se la Divina Commedia difetta di lettori».

Anche perché Pizzi ammette senza pudori di essere stato uno di quegli alunni non proprio entusiasti per lo studio: nonostante la madre fosse insegnante di greco e di latino, Bruno era il classico figlio scapestrato, che infatti si è fermato, scolasticamente parlando, alla terza media. È da qui, incredibilmente, che nasce la sua passione per la letteratura: «Ero l’unico figlio che aveva abbandonato presto gli studi, e di conseguenza provavo un senso di inferiorità rispetto ai miei fratelli: non volevo restare l’unico ignorante. Così, esattamente come il Matto di una canzone di de André, mi misi a imparare a memoria tutto, a volte senza capire niente: formule chimiche, Shakespeare, centinaia di poesie, da Magrelli a Montale, fino a Dante». Un esercizio mnemonico notevole, che non si può dire non gli sia servito: Bruno Pizzi declama terzine su terzine più o meno una sera alla settimana, da giugno fino a settembre, per le contrade più amene della Valle Imagna, non prima di aver letto e commentato ogni passo del poema. Con la sua memoria da Pico della Mirandola, tra l’altro, Pizzi sconfina in territori letterari anche molto distanti per genere ed epoca: l’anno scorso una serata su «La leggenda del pianista sull’Oceano», quest’anno alcuni incontri su Boccaccio, di cui racconta diverse novelle — inutile dirlo — a memoria. «È più difficile memorizzare una novella che un canto — assicura lui —: per ricordare il Decameron mi sono servito di un trucco: siccome le sue frasi sono ancora latineggianti, con il verbo in fondo, tutto ciò che dovevo dire durante il giorno lo dicevo alla sua maniera, con il verbo alla fine. Così il periodare boccaccesco mi veniva naturale».

Pizzi è un tipo modesto, cerca di ridimensionare il proprio talento. Alle prime esibizioni ammetteva candidamente di essere un falegname senza pezzi di carta in mano; poi alcuni amici gliel’hanno sconsigliato, dicendogli che sembrava falsa modestia, esibizionismo. «Per me, al contrario, era per dire: se legge, ama, studia, capisce Dante uno come me, che ha la terza media, per chi è impossibile accostarsi al Sommo?». In effetti alle serate dantesche il pubblico è quanto mai vario: studenti, professori, medici, ma anche artigiani, casalinghe, pensionati: gente che ha sempre sentito parlare di Dante, ma che solo con Pizzi ha sentito parlare Dante. «Ogni tanto, mentre recito una poesia, vedo qualcuno del pubblico che accompagna i versi col labiale; qualcuno si porta l’opera e legge il testo, qualcun altro, alla fine, mi fa notare inesattezze o pareri diversi su un’interpretazione. È bello che sia così: le critiche servono più dei complimenti».

Il successo delle serate dantesche è arrivato abbastanza inatteso: «Pensavo che alla lunga avrei stancato, e invece l’interesse aumenta sempre più. Ormai abbiamo un gruppo di aficionados che segue tutti gli appuntamenti». Di tanti episodi, Pizzi ricorda quello più curioso: una volta, una signora che aveva assistito a diverse serate, sedeva nel pubblico insieme a figli e nipoti. Le chiese come mai fosse presente tutta la famiglia, e lei rispose che per il suo compleanno avevano voluto partecipare con lei all’evento dedicato a Dante. Un regalo per lei e un regalo per Pizzi, un segno della curiosità cresciuta nel tempo per le sue esibizioni: «All’inizio portavamo Dante nei bar, lo declamavo tra una briscola e una scopa. Col tempo, la cosa è diventata sempre più strutturata: ora cerco di non parlare più di dieci minuti di fila, lascio lo spazio a un breve intermezzo musicale prima di riprendere il discorso, pena la noia. In compenso, in poco più di nove minuti dico 2600 parole, contro la media di un oratore che è di circa 1300. Celentano a parte».

Come Dante, anche Pizzi non può contare sulle proprie attitudini artistiche per sopravvivere: «Fortunatamente vivo grazie al mio lavoro di falegname. Le serate che faccio sono tutte gratuite. Ma non mi lamento: la Divina Commedia è talmente bella che non posso sopportare l’idea di non fare qualcosa per divulgarla. Tanto più in questi tempi in cui sembra che la cultura sia roba buona solo per scaffali polverosi». E siccome Pizzi, nella valle dei falegnami, è ormai più famoso come voce dantesca che come falegname, forte dei successi raggiunti sta progettando per il futuro un ciclo dedicato all’Iliade. Ma di tanti, tantissimi versi che ha recitato e reciterà, il pensiero tornerà sempre a due soli, pronunciati da Ulisse nel XVI canto dell’Inferno: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». In fondo, tutto il senso della sua vita.

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